Onorevoli Colleghi! - La legislazione in materia di collaboratori di giustizia nella sua pratica applicazione si è spesso tradotta in una non corretta gestione dei pentiti, che ha più volte provocato gravi forme di inquinamento di indagini e di processi oltre che irreparabili danni all'onore e alla reputazione di coloro - spesso esponenti politici nazionali o locali - che sono stati accusati ingiustamente e sono risultati successivamente innocenti.
      Troppo spesso, infatti, su semplici dichiarazioni di collaboratori di giustizia non suffragate da adeguate fonti di prova si sono costruite delle ipotesi accusatorie, che si sono dimostrate in seguito del tutto infondate, per quanto, anche a causa di alcune norme procedurali lesive del principio costituzionale del contraddittorio, non sia sempre agevole far prevalere nel processo la verità sulle falsità. Si ricorda, infatti, che in base alla normativa vigente sulla valutazione delle prove, ad esempio, è possibile condannare l'imputato sulla base di dichiarazioni di più collaboratori non supportate da altro riscontro: cosiddetta «convergenza del molteplice».
      È un dato di fatto incontestabile che la gestione dei «pentiti» nelle inchieste di mafia e, in particolare, in quelle che avrebbero dovuto accertare i rapporti di tale organizzazione criminale con la politica, ben più di una volta ha assunto profili poco chiari. Emblematico è il caso

 

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di Baldassarre Di Maggio, sulle cui rivelazioni (risultate poi false) si è basato l'impianto accusatorio di uno dei processi più delicati che hanno riguardato i rapporti tra mafia e politica. Pochi mesi dopo il suo arresto e il suo pentimento, nella primavera del 1993, Di Maggio, come risulta da intercettazioni telefoniche dei carabinieri, si trovava non lontano dalla Sicilia - come, invece, sarebbe dovuto avvenire secondo la legislazione sui pentiti - bensì risiedeva indisturbato a San Giuseppe Jato vicino Palermo, al fine di riorganizzare, anche attraverso una serie di omicidi, la «sua» cosca. In sostanza, Di Maggio stava riprendendo il controllo del suo mandamento con i soldi e con i mezzi messi a disposizione dallo Stato in cambio delle sue rivelazioni. Solo dopo diversi anni Di Maggio fu arrestato per tali fatti, e cioè nel settembre del 1997.
      Altro caso eclatante è quello di Totuccio Contorno, al quale fu consentito di «regolare i suoi conti», nel periodo in cui aderiva al trattamento speciale previsto dalla legge sui collaboratori: tanto da tornare indisturbato a Palermo, trovarsi al centro di una faida che vide uccisi ben 17 suoi avversari di mafia per, poi, essere arrestato nel cosiddetto «triangolo della morte» vicino a Bagheria insieme ai suoi temibili cugini Grado, armati di Kalashnikov e di armi automatiche.
      Merita di essere ricordato che i due esempi riportati furono in maniera criptica giustificati da alcuni esponenti della magistratura palermitana come un uso «dinamico» del pentito da parte degli inquirenti.
      Altre volte, invece, è accaduto, come nel caso di Giuffrè, che di un pentito si sono utilizzate anche le dichiarazioni rilasciate quando era stato superato il termine di centottanta giorni entro il quale per legge si dovrebbe rendere la collaborazione. Alcuni inquirenti, in sostanza, oltre a decidere sulla base di elementi non oggettivi quali siano i riscontri alle dichiarazioni di collaboratori attendibili, violano anche disposizioni normative di semplice e facile applicazione, come sono quelle sulla scadenza dei termini. Nel caso concreto appena citato, inoltre, è stato dato rilievo a dichiarazioni che sarebbero dovute risultare di per sé inverosimili per la ragione che, pur essendo rese da chi dovrebbe essere il presunto numero due di Cosa Nostra, si riducono nel riferire di notizie di terza o quarta mano senza apportare alcuna prova diretta, anzi, tacendo sull'omicidio più eclatante consumato a Caccamo negli ultimi anni, ai danni del sindacalista Mico Geraci.
      Caso ancora più scandaloso è stato quello del processo a Bruno Contrada, già capo della squadra mobile di Palermo e funzionario del Servizio per le informazioni e la sicurezza democratica (SISDE), contro cui sono state utilizzate e ritenute attendibili le accuse di boss mafiosi pluriomicidi da lui indagati e arrestati, come Gaspare Mutolo, e quelle di Francesco Marino Mannoia che, più volte interrogato, aveva dichiarato di non avere niente da dire, poi lo ha accusato e, infine, nel processo di appello, ha ritrattato le accuse.
      Non si vuole certo affermare che l'istituto della collaborazione sia da sopprimere, quanto piuttosto evidenziare che di esso si deve evitare qualsiasi strumentalizzazione o uso improprio.
      La gestione dei pentiti, infatti, rappresenta forse il punto più delicato della strategia della lotta contro la mafia, in quanto la strumentalizzazione giudiziaria o politica (poco importa stabilire quale dei due profili prevalga, considerato che essi sono tra loro spesso intrecciati) di tale fenomeno finisce proprio per favorire la mafia, che alla legislazione dell'emergenza ha reagito proponendo dei «finti pentiti» con lo scopo di depistare le indagini. In altri casi, invece, le false accuse dei pentiti non sono dettate da una strategia della mafia, ma provengono da soggetti accusati di efferati delitti, che hanno un proprio interesse personale ad accusare altri soggetti (non importa se innocenti) al solo fine di ottenere per se stessi l'immunità per i delitti commessi e ingenti benefìci economici. A tali strumentalizzazioni della mafia o dei singoli associati si deve aggiungere quella di alcuni magistrati che, più di una volta, hanno indirizzato indagini e procedimenti all'unico scopo di
 

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tenere in piedi un teorema accusatorio basato su dichiarazioni di pentiti compiacenti.
      In un'ottica realmente orientata verso l'obiettivo di sconfiggere la mafia appare del tutto evidente l'esigenza che la posizione di ogni singolo collaboratore sia vagliata e valutata con estrema cautela. Ma la realtà è ben diversa. La lotta alla mafia, infatti, è stata sinora caratterizzata da sterili proclami, in alcuni casi anche di natura legislativa, spesso enfatizzati dalla stampa, che, da un lato, hanno tranquillizzato l'opinione pubblica, ma che, dall'altro, hanno finito proprio per favorire la mafia. Più di una volta l'attività investigativa si è limitata ad un'unica fonte costituita dalle accuse di pericolosi criminali che sono stati presentati all'opinione pubblica come gli unici soggetti grazie ai quali sarebbe stato possibile sconfiggere la mafia. Accuse che hanno determinato una lunga serie di arresti indiscriminati, che solo in un secondo momento si sono dimostrati del tutto iniqui e privi di qualsiasi fondamento. A tale proposito non si può non segnalare come all'appiattimento di non pochi pubblici ministeri sulle mere affermazioni dei pentiti si accompagni nella società un inquietante clima di sospetto nei confronti di coloro che cercano di ricondurre ai princìpi costituzionali una legislazione, come quella antimafia, che in più punti appare essere in palese violazione non solo dei medesimi princìpi costituzionali, ma anche di princìpi sanciti in trattati internazionali, come, ad esempio, la Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle libertà fondamentali, firmata a Roma il 4 novembre 1950 e ratificata ai sensi della legge 4 agosto 1955, n. 848, che dovrebbero essere, per ciascun Paese che si ritiene democratico e liberale, il presupposto di ogni normativa inerente alla libertà personale.
      In realtà rappresenta un vero e proprio oltraggio alle vittime della mafia che soggetti responsabili di decine di omicidi, spesso perpetrati con una crudeltà tanto inaudita da arrivare allo scioglimento nell'acido di bambini, abbiano ottenuto lo status di pentito e, quindi, tutti i benefìci che ne conseguono in termini di sconto di pena e di concessione di elargizioni economiche. Né si può obiettare che i risultati ottenuti tramite i collaboratori di giustizia nella lotta alla mafia siano tali da giustificare anche il sacrificio di alcuni princìpi dell'ordinamento, in quanto, da un lato, tali risultati sono del tutto mancati e, dall'altro, ad alcuni princìpi lo Stato non può mai derogare se non rinnegando la propria natura liberal-democratica. Anzi, la recente scelta di portare a regime la normativa temporanea di deroga alle regole del trattamento penitenziario dettata dall'articolo 41-bis della legge 26 luglio 1975, n. 354, recante «Norme sull'ordinamento penitenziario», rappresenta nella sua contraddittorietà il simbolo della sconfitta di un tipo di strategia di lotta alla mafia basata su norme ad effetto di scarsa efficacia concreta. Da un lato, infatti, si afferma che la lotta alla mafia necessita che uno strumento eccezionale diventi ordinario e, dall'altro, si ammette che il medesimo strumento eccezionale non ha finora portato ai risultati, in termini di lotta alla mafia, sperati.
      Il richiamo al citato articolo 41-bis non deve sembrare non strettamente attinente alle vicende relative alla gestione dei collaboratori di giustizia, in quanto spesso è proprio la minaccia dell'applicazione di tale norma a «convincere» gli indagati, imputati o condannati a collaborare anche a costo di accusare ingiustamente degli innocenti. Altre volte sono, invece, le promesse di ingenti somme di denaro che determinano le collaborazioni giudiziarie.
      Appare quindi evidente, proprio al fine di conferire concretezza alla lotta alla mafia, la necessità di istituire una Commissione parlamentare di inchiesta che indaghi sulla correttezza nella gestione della collaborazione dei pentiti e, quindi, sulle conseguenze di quell'uso sull'amministrazione della giustizia. La Commissione, pertanto, dovrà indagare sulle ragioni che hanno portato a impiegare ingenti somme per soddisfare alcune esigenze di alcuni «collaboratori» e, quindi, se siano state recuperate da parte dello Stato le somme pagate ai «collaboratori» dei quali si è successivamente
 

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accertato il mendacio o la violazione della convenzione stipulata. La Commissione dovrebbe anche verificare quanti anni di carcere siano stati espiati da chi, accusato dai collaboratori, è risultato, poi, innocente.
      La Commissione dovrà, inoltre, verificare anche i rapporti economici tra i collaboratori e i loro difensori, nonché gli ambiti del controllo del Servizio centrale di protezione sui collaboratori stessi. Ulteriore obiettivo dell'inchiesta dovrà essere la verifica dei criteri adottati per l'inserimento o per l'espulsione del collaboratore nel programma di protezione, nonché le vicende legate al fenomeno allarmante dei numerosi pentiti che sono tornati a delinquere.
 

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